[trad. it. di M. Gregorio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016]
David Le Breton è noto per essersi occupato del corpo quale tramite fra soggetto e universo tangibile, luogo privilegiato della memoria, prisma attraverso cui interpretare le sensazioni altrui, in relazione alle proprie. Il suo ultimo saggio – uscito in Francia nel 2015, presso le edizioni Métailié – pare distinguersi dai precedenti per almeno tre ragioni. Pur affrontando il rapporto che ognuno intrattiene con se stesso per mezzo dell’immagine che il corpo tende a restituirgli, manifestamente alterata in funzione delle circostanze: (1) questo nuovo libro non ambisce a operare grandi sintesi, ma privilegia piuttosto l’analisi “a campione” e un taglio di natura prevalentemente sincronica; (2) avvalendosi di una fitta rete di riferimenti letterari, ciascuno dei capitoli di cui si compone tende a privilegiare uno fra gli svariati sistemi di difesa che si possono erigere, nel tentativo di proteggere se stessi e la propria integrità fisica dalla realtà circostante; (3) senza cedere a derive potenzialmente demagogiche, il registro adottato assomiglia più a quello di un manuale, volto a passare in rassegna diverse tipologie di fuga dall’idea che i sistemi capitalisti “avanzati” cercano di obbligarci ad avere di noi stessi, che non a quello di un contributo accademico strictu sensu.
In risposta alla pressione mediatica odierna esercitata dal mondo occidentale (o occidentalizzato) sulla gente, costantemente incoraggiata a reinventare la propria esistenza, alla ricerca di un’affermazione in assenza della quale niente sembrerebbe contare davvero, Le Breton suggerisce un’analisi tesa a soddisfare una doppia necessità: quella di far luce sulle tendenze più sintomatiche del nostro agire contemporaneo – influenzato tanto dal bisogno di “sentirsi vivi”, quanto dalla voglia di ritrovare in questa frase un significato che non sia per forza uguale per tutti –, e di riproblematizzare la nozione, per molti versi desueta, di “legame sociale”. E infatti, dopo aver descritto vari atteggiamenti dettati dalla volontà di sottrarsi alle norme e alle aspettative dominanti (fuga nell’alcool, nella droga, nel gioco, nella follia ; fuga tout court “nelle terre estreme”), l’autore si concentra sull’ipotesi secondo cui fare astrazione, se non altro temporaneamente, da ogni possibile dialogo con la collettività potrebbe rivelarsi, in molti casi, l’unico vero modo per “ricominciare da zero” e inaugurare una relazione autentica con la persona che si desidera essere, prima ancora che con il resto del pianeta. Ricco di spunti antropologici, il testo di Le Breton non si esime dal fare ricorso a scrittori di diverso ordine e grado per argomentare le proprie tesi. Pur non proponendo di sviluppare in maniera progressiva un discorso effettivamente ancorato al presente, l’impiego di tali fonti serve a mostrare come questioni tipicamente contemporanee possano, a ben guardare, essere interpretate come l’esasperazione di una delle conseguenze più dirette che il processo di modernizzazione massiva in atto sin dalla seconda metà del Settecento ha avuto sui singoli individui. A questo proposito, se la citazione di Rousseau in epigrafe sembra alludere ad un percorso che avrebbe potuto articolarsi intorno ai concetti di promenade, flânerie, errance e fuite – diversamente declinati a seconda dei contesti presi in esame –, di fatto l’indagine sceglie di focalizzarsi solo ed esclusivamente sull’apice di una climax che, pur non venendo esplicitata in quanto tale, finisce con l’agire in maniera sotterranea sull’organizzazione complessiva dei contenuti. Inevitabilmente, chi, di Le Breton, aveva già letto l’Eloge de la marche (2000) e Marcher. Eloge des chemins et de la lenteur (2012), non potrà non individuare in questo contributo recente l’altro grande filo rosso che pare aver attraversato la produzione dell’autore da cima a fondo, parallelamente ai già citati lavori sul corpo.
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